OLTRE IL SEGNO DELLA STORIA. LA POESIA DI ANTONIO CILLÓNIZ
di María Beatriz LENZI
Antonio Cillóniz (Lima, 1944) parla di sé come di un poeta realista perché impegnato con il suo tempo. Se cogliamo con uno sguardo d’insieme la poesia del ’900 troviamo, assieme alle lotte per le grandi trasformazioni, ripetuti momenti in cui l’impegno ideologico diventa poetica della consacrazione del reale. Cillóniz, che inizia la sua scrittura negli anni caldi del 68, è anche lui un poeta del reale, ma di un reale sconsacrato.
Contro la bruttezza del mondo industriale, che è alienazione dell’intelletto e della natura, la sua generazione reagisce con la costruzione di una zona di marginalità, zona esclusa e allo stesso tempo esclusiva. L’uso del materiale nella sua rozzezza, la poesia come luogo della lotta di classe, il rifiuto del senso del mondo, e quindi dei valori stabiliti, attraverso un non senso trasgressivo del discorso, la frammentarietà del pensiero al posto della disintegrazione dell’uomo, sono alcuni dei tratti che riscontriamo nei poeti del Perù degli anni ’70, immersi nel fuoco della tensione tra le rivoluzioni possibili, per la giustizia sociale, e il sopravvento del maccartismo nei gruppi di potere. All’interno di questa marginalità – poetica ed esistenziale – che permette di resistere e lottare, Antonio Cillóniz è un solitario: non solo in quanto s’è mantenuto indipendente dal fare collettivo e ha optato per lesilio volontario in Spagna, ma perché accanto a una parola che distrugge dal suo interno la bruttezza, ritroviamo nella sua poesia l’osservazione della tragedia del reale, intesa come sostanza della natura e, quindi, accanto all’incubo dei mostri della ragione, ci sono le devastazioni, i conflitti, la malattia, la morte.
La sua opera, La constancia del tiempo (Lima, Viva Voz, 1990), raggruppa le poesie scritte tra il 1965 e il 1986 e comprende le raccolte Verso volgare, Dopo aver camminato certo tempo verso l’Est, Fardello funebre, Una notte nel cavallo di Troia, La condanna dei fiori, Non troveranno mai le mie labbra. Il volume si presenta come un corpus pervaso da una scansione strutturale, opera di un paziente e rigoroso lavoro, di una precisa valutazione
mestiere di poeta – un itinerario obbligato per il lettore che, paradossalmente, forma celasse l’eversione dei contenuti.
La semplicità del titolo, La constancia del tiempo, nasconde una chiave di lettura dell’intera opera. Constancia prende da consto i significati di costanza, fermezza, permanenza, e di constatazione, conferma, e anche testimonianza. La parola, distolta dalla sua carica segnica, si muove all’interno li una pluralità di significati, nello spazio della différence, per dirla derridianamente, e fa di sé uno specchio che riflette altro e richiama il senso ne continui rimandi di significati. Gli assi semantici che attraversano la poesia di Cillóniz, racchiusi nella costanza e nella testimonianza del tempo, sono fondamentalmente il rapporto tra il lavoro poetico e la storia.
Da una parte, La constancia del tiempo è il testimone di un lavoro di elaborazione, ricerca e consolidazione. Lo osserviamo, ad esempio, nel confronto con l’edizione del 1975 delle tre prime raccolte apparse sotto il titolo di Los dominios. In essa ci par di vedere non una poesia definitiva, ma il materiale – la «materia prima», se si vuole – che, nel 1990, dará vita a La constancia, con una parola saggia, scavata dalla riflessione poetica, uno stile sicuro, sereno anche se sempre sconcertante. L’epigrafe di Los dominios, tratta da José Carlos Mariátegui: «Nessuno di questi saggi è concluso: e non lo sarà mentre io vivrò, penserò e avrò qualcosa da aggiungere a ciò che da me è stato scritto, vissuto e pensato», può esaurire il suo atteggiamento nei confronti della poesia e della realtà, che lo separa forse dai suoi coetanei, quello di una costante discussione che spezza ogni possibile ortodossia. Il percorso seguito da Cillóniz lo allontana da un radicalismo del linguaggio degli «ismi», ma lo conduce a un altro radicalismo, più profondo sul piano esistenziale.
La riflessione sul lavoro poetico si manifesta come una dichiarazione, una poetica esplicita, che spiega e si spiega – quasi a frustrare il lavoro del critico –, ma dietro questa cornice di pubblica trasparenza, la poesia permane segreta, da scoprire. Il mestiere del poeta è un lavoro che, a differenza di altri, è fondamentalmente solitario. Lavoro notturno, inquietante e marginale, che implica l’assunzione della responsabilità di comunicare, di agire sulla realtà: «Non cercate nel mio canto / lo splendore dorato / del sole, / né il fulgore / dell’oro in ogni verso. / Troverete soltanto / acciaio / che al rosso vivo dura / quel che la luce di un giorno». L’opera, quindi, è anch’essa testimone dell’impegno con il suo tempo.
L’altra direzione del rapporto tra lavoro e storia si cala nell’idea di costanza, di permanenza. Uno dei temi cari a Cillóniz è la costruzione di analogie all’interno della storia dell’umanità, intesa, non come concretezza fattuale, ma come comportamento, come luogo dell’etica. La visione che ne consegue è priva d’innocenza. In Una notte nel cavallo di Troia, alcuni grandi fatti della storia universale e della storia della cultura s’intrecciano con l’aneddoto, coi piccoli eventi del vivere, facendo sì che le frontiere epocali si sfumino fino a dissolversi. Il poeta rivisita alcuni temi, come nella poesia “Parca”: «Se la fame o la peste assediano / tra i solchi della nostra terra ondulata / scamperà il più felice e fortunato di noi. / Ma se la guerra viene in nostro aiuto / tra i solchi della nostra terra ondulata / saremmo tutti portati / alla terra ondulata di altri come noi / dove al più debole terrà sempre compagnia la morte». Probabilmente il poeta darebbe ragione a Borges quando dice che «forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore».
In Dopo aver camminato certo tempo verso l’Est, il poeta percorre lo spazio americano attraverso la sua storia in permanente confronto tra un passato libero e un presente devastato. Si tratta di un viaggio, in cui non esiste scissione tra realtà e irrealtà, che inizia Al Sud del mondo, includendo il dato autobiografico Fra la casa e il mondo, per concludersi nei Tempi difficili.
La poesia recupera l’idea della storicità come sostanza dell’accadere umano, che le permette, non di fare appello alle significazioni implicite nel dato storico, ma di suscitarle, di provocarle. Questa storicità senza confini richiama l’idea di mito: «Urep» – anagramma di Perù? –, personaggio di Fardello funebre, alter ego del poeta, che si confonde e si scambia come un sosia, è un viaggiatore che visse e vive il tempo in uno spazio terreno dove genera, emigra, si esilia.
L’uomo concreto, la vittima e il carnefice, il poeta stesso sono segnati da questa storicità in quanto accerchiati dal limite inesorabile della morte, tragica ma naturale distruzione. Ecco un altro tema che feconda la poesia di Cillóniz: il permanente ricordo della morte, quasi come un memento mori, ma di inconfondibile radice profana. L’idea della consumazione (corruzione) della carne, senza speranza e senza possibilità di una escatologia, nasconde, forse, la disperazione e l’orrore nella spietatezza naturalistica e nel sarcasmo: «Almeno non potrò rubare il cibo/ ai miei vermi».
L’accusa della bruttezza del mondo, la cattiva coscienza della storia è sentita come apocalittica, facendo prevalere l’idea dell’agonia del mondo naturale, la «natura morta» come la chiama il poeta: «Il grano / splendente / non brilla più / ai lati della strada. Tutto / quanto qui vedete è necropoli / e non riesco a leggere nascosto / tra gli sterpi / nessun epitaffio. I bulldozers / distruggono le città / come quando la rottura della diga / mise fine allo splendore di Saba».
La politicizzazione non travalica il limite del privato, ma lo invade, la solitudine è l’angoscia di vivere. L’intimità – quasi assente, talvolta insinuata – si ripiega in un’interiorità cifrata, in un esilio interiore. L’io del poeta non si spoglia, non si mostra nudo agli occhi del lettore; prende distanza e, come l’0bbiettivo di una macchina fotográfica, si pone davanti alle cose o le guarda con distacco, con ironia, scongiurando la sua esperienza del dolore in una realtà che ha perso, forse da sempre, la sua sacralità. Il linguaggio diventa più unilaterale, piú asciutto, consapevole del suo sentimento contenuto. Ma non avverte il bisogno di distruggerlo perché può ancora trovare la bellezza nella congiunzione tra la parola colloquiale, quotidiana, che ha potuto scorgere e apprendere dai suoi poeti più amati, tra cui César Vallejo, Ezra Pound, e soprattutto Bertolt Brecht, e la parola colta, il dato letterario, la tradizione dei classici spagnoli. Forse è questa l’unica sfera possibile di conciliazione spirituale nei confronti di un mondo non più praticabile.
Antonio Cillóniz
da LA CONSTANCIA DEL TIEMPO
PER IL NUOVO MONDO
Date al fisico un punto di appoggio e solleverà il mondo. Ma lo spazio che circonda la materia gli dà forma, in modo che possiamo affermare che diventa parte della sua stessa essenza; per cui, in sostanza, avrà scoperto un nuovo mondo.
Date un’ancora di salvezza al naufrago e, aggrappato ad essa, nella direzione che indicheranno i venti o il senso delle onde e la corrente, giungerà a nuove terre. Ma non avrà scoperto soltanto la parte di un tutto, che era ritenuto nulla, ma del tutto stesso e della parte già conosciuta, perché senza di essa il tutto è una parte e con essa non è più il tutto.
Date al pensatore o all’artista la possibilità di disporre liberamente del tempo e avrà spazi per tanti mondi quante spiegazioni di esso voglia dare. Ma come a ogni essere corrisponde un concetto e viceversa, rimarrà loro il dubbio se a quell’essenza corrisponde un’esistenza o, ciò che è lo stesso, se è materia o pensiero puro.
Date al contadino la terra dei nuovi mondi che l’intelletto avrà conquistato affinché possa coltivarla e ci dirà se esistono. Anche se lui ci chiederà quella che già lavora.
SULLA MATERIA
Se avesse ancora un altro senso crescerebbe il mondo? Anche se non posso indicarle, non esistono forse le stelle che io non vedo? E potrei perfino immaginarle. Eppure preferisco descrivere le uve del grappolo che tu mi offri, dopo averle assaggiate.
– Ma la vigna che tu mostreresti non servirebbe come alimento.
– No. Ma la vigna esiste. E quel che tu temi è che si diffonda.
CANZONE FUNEBRE NELLA VALLE DEL RÍMAC
Ecco La Terra
che gira nuda
su un naso di foca in un circo vuoto
con gli oceani immensi una grande macchia azzurra pallida
molto bella
e le linee celesti dei fiumi
o i punti scuri
della sua pelle rugosa,
marrone e sporca. Ecco
che può essere ormai contemplata dalla Luna
o si può continuare a vederla quaggiù
sdegnosa come una pelle tirata di scimmia
che balla sul suo tamburo.
E gli spiriti della montagna
ieri benevoli nella coltura dei cereali
fumano sotto le loro ceneri.
Il vento soffia dall’Ovest
travolgendo il mare
dal cielo che ci cade addosso
con uccelli
di pioggia e di piume rosse
contro di noi: anelli di ossidiana,
collane di denti e argilla sotto le maschere,
con specchi di latta, speroni d’argento
e neri pennacchi sui loro elmi.
Ecco che si calma ora la terra davanti al mare:
pozze,
pozzi di petrolio e pescherecci, pellicani morti…
e dal mare nemmeno un soffio di vento
e brucia
la pelle al sole
come scorpioni cosparsi di kerosene.
Disteso accanto alle formiche
e ai piedi della corrente di Humboldt,
sto cantando.
PROCLAMAZIONE DELL’INVERNO FRA LE NUBI DEL CIELO PLUMBEO E LE ONDE DELL’OCEANO GRIGIO*
Mare del Sud,
oceano di alghe
e garriti di uccelli.
Neanche più un indizio
che da queste parti c’è
un paese desolato.
Nemmeno una zolla della terra Mochica
dura e secca;
nessun vaso Nazca
o Paracas,
a pezzi rossiccio e giallastro;
né un solo huaco Chavin;
neppure Chimú con pesci-serpenti e scolopendre
uscendo dal mare a Huanchaco.
E arrivano i venti gelidi del Sud
con odore di mais bruciato per l’offerta
e colore oro vecchio dei braccialetti
e maschere mortuarie per le mummie
e sapore di grano funebre.
* In questa poesia Cillóniz fa riferimento alle antiche culture andine dell’epoca pre-incaica.
La cultura Chavin (Ancash) si svolse nel periodo, detto di formazione, tra il 1250 a.C. e il primo secolo d.C. All’interno del suo vastissimo spettro di influenza conosciuto come «orizzonte Chavin» si sono sviluppati altri centri, come quello di Paracas nella costa sud. Dai primo secolo fino all 800, chiamato periodo fiorente, sorgono le culture Mochica e Nazca. Il predominio culturale di quest’epoca appartiene a Tiahuanaco (Bolivia). A partire dall’800 fino circa il 1300 avviene una fase di grande fusione, dove, ad esempio, la cultura Chimú si fonde con quella Mochica fino alla sua incorporazione nell’impero inca del Tahuantinsuyu.
Queste antiche civiltà sono conosciute come le «alte culture» per il grande livello di evoluzione nell’agricoltura, l’elaborazione dell’oro (anelli, braccialetti) e soprattutto della ceramica.
Di esse ci sono pervenuti i vasi, che ricevono il nome de huacos. Gli huacos Mochica, ad esempio, di colore giallastro e rossiccio presentano raffigurazioni antropomorfiche, quelli Chimú sono dipinti con immagini di serpenti, pesci e altri animali sacri, motivi che, più stilizzati, si ritrovano anche nella cultura Nazca. Il culto funebre ha nella cultura di Paracas un posto di rilievo caratterizzato da grandi teli lavorati con i quali venivano avvolte le mummie a modo di fardelli [n.d.t.].
LONTANANZA
Il sole si addormenta sulle pietre
e sulle piante
degli occhi
si posa la rugiada.
Ah,
beato te
che ti prepari ad attraversare l’Atlantico
per raggiungere l’altra sponda
dell’America.
Tutte le sere mi affaccio a salutarti
al balcone Ovest della casa
e di buon’ora ti aspetto sulla soglia dell’Est
nel caso ci fossero notizie.
TEMPI DIFFICILI
Non troveranno nessuno
a custodire
l’entrata accanto alla porta.
Il sentiero sarà quasi cancellato
dalle foglie che ormai nessuno calpesta più.
Davanti alle finestre
cespugli
o ragnatele.
E anche se a momenti
crederanno di vedere che
torna a muoversi la fronda
aspetteranno inutilmente
che qualcuno esca dagli sterpi.
IN DIFESA PER L’EUROPA
Beato me
che lascio l’Europa
dove cadono perpetue le nevi
sulle tempie dell’immigrato, ai margini
dei diritti perduti
per via della cittadinanza,
sollecitando permessi
di soggiorno
chi fosse grande vassallo
senza avere buon signore
nella Grande Babilonia, Grande Sidone, Grande Tiro,
Grande Gadex estesa per tutto l’orbe.
CARBONIO 14
Gli atomi del mio corpo che provengono da muschio
millenario
e da antiche alghe
hanno preso la configurazione che ho adesso
– e finché durerà questo ordine mi diranno che esisto –,
sebbene dopo prenderò l’aspetto di una felce
– e allora mi daranno per morto –,
quando forse sarò riuscito a spuntare
tra l’erba che calpesti
anche se nessuno mi riconoscerà.
DI NUOVO TRA SCILLA E CARIDDI
Non so che cosa ci guadagno con le mie conquiste
a costo del mio lavoro. Galeone oscuro
navigando verso l’Oriente
giunse alle stesse isole estranee
che Glauco troncò quale vescica
galleggiando verso Occidente.
Perché remare
in questo immenso mare
di tempestivi?
COME CONGEDO
Lo spirito, voglio dire il movimento della materia
è sfuggito loro dalle dita, dagli occhi
dal cervello e le loro membra
rattrappite, paralitiche
come chi implora l’elemosina degli eroi,
il favore degli dèi con la mano tesa
e alzata contro il cielo.
Le loro bocche sembrano pronunciare una preghiera
aperte come una o proprio come un culo,
immobili come statue davanti a un cavallo
di Troia omaggio degli dèi: mais asciutto, sale bagnato,
stoffe nuove che si frantumano
al minimo tocco, berretti verdi.
Ma lo spirito è loro sfuggito come un fiume
da un cielo aperto in tempesta di pioggia e di fuoco
tra nuvole che si aprono come fardelli funebri
dall’apparenza splendida: mascherine d’oro,
braccialetti d’argento,
tuniche di bronzo. Ma sotto puzzano
i loro denti marci, magro lo scheletro,
giallastro il teschio.
E quale migliore occasione questa
per dire addio
alla sua famiglia, ai suoi amici,
ma sono già tutti morti.
NELLA CASA DI PILATO (UN’ALTRA VOLTA)
Ahi dell’arrivo nella partenza
e della sosta nel transito.
Di colui che avanza perché chi è dietro incalza
e di colui che incalza per restare indietro.
Di colui che scompare senza lasciare tracce
e di colui che va lasciando tracce false.
Ma ancor di più di colui che si trascina
e c’è sempre
e resta, resta
senza che nessuno se ne accorga.
PROMETEO
Se odii gli dèi
perché un giorno ti toglieranno la vita
tutta la vita vivrai tormentato.
Ma se li ami
perché ti dettero la vita una mattina
tutta la tua vita allora vivrai
temendo di morire fra i tormenti.
CANTI DI VITA E DI SPERANZA
Ma più di una rosa
ora
mi evocherà una musa?
Quante prose
che
non profanarono
mai nulla!
Preferisco
versi oscuri
a una canzone che stupisce
perché accompagna il cigno
tra singhiozzi
e sospiri.
Come un canto errante
di finti pavoni.
MI HANNO FERMATO LA VITA
Appendo l’eternità a un lato
e alle mie spalle vi lascio l’infinito. Dio
è stato dappertutto
dove io
non sono mai passato.
Antonio CILLÓNIZ
(Colettivo R, versione italiana di María Beatriz LENZI)
Vittoriosi vinti, versione italiana di Antonio Melis:
CONTRO IL FALSO RE MIDA
De Portobelo verso Cartagena de Indias
il galeone San Jose venne affondato
con oro, argento e smeraldi, tutto
quello che il Perù mandava
sia al re che a nobili ed ecclesiastici del Regno di Castiglia
e là seicento uomini morirono.
Sul fondo del Mare dei Caraibi
riposa ancora il relitto che in Spagna
reclamano come proprio.
Tirate fuori dal fondo dei Caraibi
tutto quello che vi appartiene
restituitelo al luogo dal quale non avreste mai dovuto venire,
lo scheletro delle vostre navi,
i legni marciti del galeone,
la catena e l’ancora
che non trattenne la nave verso la morte,
portate tutto fino alla vostra antica casa
con le ossa di seicento marinai,
dove avreste dovuto morire
non quello ma un altro giorno,
non in mezzo a questo mare
di invidia, di violenza, di avarizia
ma nel vostro letto
con dignità, pace, calma
e non in quel deserto di fragore e di confusione atroce
ma accanto a facce e a voci conosciute.
Ma lasciate l’oro con l’argento e gli smeraldi dove stava,
esigete soltanto ciò che è vostro
e così prendete la vostra paura, la vostra incoscienza, il vostro egoismo e andatevene,
ma non il dolore, né il sacrificio e il sudore
di quelli che camminano per la loro terra
come assassini dei loro sogni,
ladri dei loro stessi beni,
mendicanti
di tutto ciò che con le mani hanno seminato,
di tutto ciò che con le loro braccia hanno difeso,
di tutto ciò di cui davanti alla loro ombra furono spogliati.
IL DANUBIO ROSSO
Bel Danubio blu,
il rumore del tuo passaggio
è una canzone di tanto tempo fa
e fedele estende il sentimento della Germania
lontano dal bosco nero.
A Vienna,
ormai sulla riva destra delle tue acque verdi,
ho camminato fino a rovinarmi i piedi
su sampietrini di granito
portato da Mauthausen.
E oggi non molto lontano dal Danubio
rondoni,
rondoni neri sorvolano
sui muri grigi di Mauthausen.
fili spinati così fitti
che nemmeno il vento può trapassarli.
All’arrivo
appena svolti ti ricevono
le ali stese
di un’immensa aquila minacciosa
con una gigantesca svastica fra le zampe.
Entrarono per la porta in numero di settemila
cinquemila dei quali uscirono dal camino,
come dicevano a loro.
Nell’anonimato della folla morirono in tanti
e fra quei settemila non c’erano, non ci furono mai
quelli che furono assassinati prima per la strada,
quelli che morirono prima di arrivare alla stazione,
quelli che poi arrivarono morti a Mauthausen.
Prigionieri di guerra no,
ma vinti vittoriosi della terra,
prigionieri sul monte della morte
e condannati ai campi di sterminio,
a uno a uno, gloriosi esiliati
della grottesca farsa spagnolissima
in cui un traditore ti accusa di tradimento,
di sedizione un militare sedizioso,
di ribellione un generale insorto
senza scrupoli, senza onore, senza dignità;
e a uno a uno dediti alla resistenza eroica
contro la vergognosa collaborazione francese.
Repubblicani, doppiamente fedeli,
furono le vittime di Franco,
sono le vittime di Vichy,
saranno le vittime di Hitler.
Intorno l’aria
diventa irrespirabile
in un fetore di pelle e di carne bruciacchiata;
e quando si accende la macchina che estrae il gas
perfino gli uccelli fermi
sulle grondaie del tetto muoiono.
Scendendo 186 scalini
verso l’inferno,
salendo 186 scalini
verso la morte,
con una pietra sulle spalle
a partire da un quarto del peso del loro corpo
fino ad arrivare a quattro terzi del loro peso,
scalino dopo scalino arrampicandosi sulla roccia viva
con mani di torture
e con gambe di agonie.
Intorno,
360 volt circondano tutto il campo.
Un sole soffocante a mezzogiorno,
Un’oscurità gelida a mezzanotte,
fra lampi delle scariche
è il tempo nelle baracche di legno.
Quello è il tempo;
il tempo prima della cava,
che nasconde la falce fredda
con le sue orine e i suoi escrementi
in un angolo,
già sui camion e sui treni
del viaggio fino a Mauthausen;
e il tempo della cava ormai a Mauthausen,
che mostra una falce luccicante
in ogni baracca,
in ogni pietra dei muri,
in ogni punta dei reticolati,
nei gradini delle scale,
nella forza che strappa dalla roccia, colpo su colpo, ogni blocco
caricato pietra su pietra;
e il tempo ormai dopo
della cava nella falce
che fischia già nell’aria
in mezzo ai cani:
il tempo della camera sigillata,
il tempo delle raffiche di piombo,
il tempo dei reticolati elettrificati,
il tempo dell’ago nell’iniezione letale
o quello dell’ago nell’estrazione sanguinosa come un dente
di pastore tedesco, fino a lasciare i corpi dissanguati,
Perché quel sangue di ebrei,
quel sangue di omosessuali,
quel sangue di prostitute,
quel sangue di antifascisti fuori dai loro corpi,
tutto quel sangue fuori dalle loro vene,
senza polso né palpiti,
adesso sì che serve
ai soldati,
adesso ormai è utile
ai feriti.
Sangue di fratelli libertari,
sangue di compagni socialisti,
sangue di commilitoni comunista
che scorre per le vene naziste!
Ormai nei loro piccoli cuori ariani
palpita il sangue dell’ebreo
per ammazzare ebrei,
palpita il sangue del gitano
per ammazzare gitani!
Dov’erano le mura di Gerusalemme?
A che servirono sacrifici e lodi di Abramo o di David?
A cosa è valso allora
averli elevati verso il vuoto,
verso il nulla?
Gli angeli custodi dei figli di Sion
Dov’erano?
Che ne è stato dell’arcobaleno della nuova alleanza
con il popolo eletto del Signore?
Che ne è stato di tanta terra promessa?
Dov’era Dio?
Ma cosa è stata in verità Sodoma,
e cosa Gomorra,
o cosa solo un vitello d’oro,
se non poi la stessa Roma?
Proprio come questo nuovo muro
delle mie lamentazioni
sarà poi anche quello della mia morte.
Gitani,
unici discendenti di Caino,
della stirpe di Cam, anche
parenti di una tribù di Israele
perduta nell’Egitto faraonico,
tutto questo hanno detto di noi,
maghi di Siria, forgiatori
dei chiodi di Cristo, perfino ladri,
tutto questo dicono di noi.
Nessuno pensò di guardare la sfera di cristallo,
furono inutili i rami di rosmarino nelle tasche
accanto al fazzoletto con il sangue dell’amata
del giorno delle nozze e il rasoio
con il sangue della vendetta e dell’onore;
quella è la nostra bilancia
per misurare la vita di fronte alla morte.
Nessuno si lesse il palmo della mano.
Chi si sarebbe immaginato che il fuoco
non era per accamparsi sempre nei dintorni
delle città?
A nulla servono gli scongiuri oggi.
Adesso siamo una carovana senza carri
che peregrina solo
dalla baracca alla cava,
dalla cava alla baracca;
forse stavamo qui
condannati a vagare per tutto il mondo,
di paese in paese,
di nazione in nazione,
di continente in continente?
E, essendo stati condannati alle galere
in seguito alla prammatica di Carlo,
abbiamo forse smesso di viaggiare allora?
E adesso, in carovane di ceneri nell’aria
senza carro si inizia anche un transito
verso l’aldilà,
di paese in paese,
di nazione in nazione,
di continente in continente,
sempre verso l’aldilà.
Risse di animali, non battaglie,
la contesa a fuoco e piombo
del cesello e del martello contro la falce,
scaramucce della fronte contro il piede sulle scale,
battaglie no,
ma la pugna dei corpi con le loro ombre,
lotte corpo a corpo del sudore e del sangue
con i piedi e le mani contro il suolo,
contese delle carriole con le pietre,
le dispute dei corpi con le loro anime,
scontri in segreto
dei cucchiai con le scodelle
e il duello delle anime per i loro corpi.
Nudi corpo contro corpo, scarnificati
piantando le ossa degli uni come ossa proprie nelle ossa di altri
stanno entrando nelle camere oscure,
gli uni guardandosi negli occhi degli altri senza potersi muovere,
aspettando tutti in mezzo all’asfissia
il gas irrespirabile
con il pizzicore che arriva fino agli occhi prima
e fino alle labbra prima che alla lingua
e nell’ardore poi nel naso e nella gola
fino al bruciore finale nei polmoni
che annebbia i sensi e la mente;
e ormai la morte,
la morte di cadaveri in piedi
senza posto per cadere a terra sul pavimento.
Si vedono defunti che entrano
nella stanza dove strappano a forza,
a pugni,
a colpi di martello denti d’oro.
Più tardi arriverà anche la norte
agli stagni di acqua gelata alla cintola,
a quelli appesi per i piedi
con il sangue ammucchiato nella testa;
visiterà i forni crematori fino a essere cenere,
guarderà dal muro dei paracadutisti
le acque limacciose là in basso
aspetterà affacciata agli spunzoni delle rocce.
La morte,
la morte che accompagna sempre il comandante
nella canna della sua pistola Luger,
anche la morte del tenente,
quella del caporale, quella del soldato semplice
con la loro fede nei mauser sempre pronti
e nei grilletti dei loro mitra sempre saldi,
la morte che cammina lentamente in mezzo ai cani,
fra i prigionieri,
fra i morti;
la morte
che abbaia ai talloni,
la morte a dentate,
la morte in una zanna
che precede le ferite,
il rantolo e salta
sulle spalle di ciascuno,
li prende per la schiena,
li abbraccia,
gli parla sussurrando appena all’orecchio,
nelle baracche, nelle latrine,
nella camera a gas,
nel crematorio;
la morte che arde fino a restare senza ossigeno,
la morte fra le braci e nelle scorie fra le ceneri,
sparsa sul fondo,
accoccolata nell’angolo del forno,
perché non è una sola morte, temo,
perché ogni morte non è nemmeno isolata, penso,
ma molte, credo, se non tutte insieme, dimmi,
che è vero?,
José Torres Tribó, tu lo sai bene,
tu che sei stato incinerato vivo.
Segnati ad uno ad uno nel loro triangolo invertito azzurro
di apolide e il loro numero
cucito nella memoria, nella coscienza,
e anche verso fuori,
verso gli occhi del boia in ogni berretto
e in tutte le giacche,
ma anche il loro numero e il loro triangolo
solidale fra tutti,
fratelli, compagni, commilitoni,
con ogni numero dietro, davanti, da ogni parte,
caduto in terra nello stomaco della fame,
trascinato nella sete dei reni,
soffrendo nelle orine e negli escrementi caldi,
piangendo per le lacrime ormai orfane di pianto
e i sudori freddi,
inciampando nell’orologio del fegato fermo
e in quello del pancreas senza rimedio
o nel pudore dell’osso di fronte alle pelli scarnificate,
così tremule e pallide,
e nel cuore ebbro di benzene infine.
Ab, la scala di Giacobbe, che non ascende mai al cielo
sorgendo dall’incubo dei sogni,
ma che in una terribile vigilia
discende dal muro dei paracadutisti
fino a cadere sul fondo della cava.
Scala di Giacobbe che ascende e che discende,
che scende e sale
186 passi,
che scende e sale
186 contropassi.
Che verso l’inferno sale dal basso
per scendere verso un altro stesso inferno dall’alto.
Scala di Giacobbe, di Salomone,
di Giovanni e di Giacomo,
ma anche scala
di Franz, di Friedrich, di Otto.
Scala di chi amava
e si lasciava amare, senza distinzione di sessi;
scala
di chi con fede pensava
senza dogmi, senza dottrine, senza ideologie,
di continuare a sognare speranzoso;
scala
di chi viveva senza sapere di razze
aspettando di morire solo come bipedi,
come vivipari,
come mammiferi,
e, tuttavia, trasferiti come invasioni di cavallette,
per soffrire come animali,
come file di mule,
per vivere come bachi, lendini, larve, acari,
per tentare le ombre sempre,
di adesso, forse di domani, anche se forse di mai,
come talpe, come carcomi,
per rotolare in mezzo ai rumori, infine,
nella cecità eterna
dell’oscurità infinita,
nella sordità eterna
del silenzio infinito,
cadendo lì come mosche, come cimici,
come conigli.
E ci fu anche un altro modo di raggiungere la rigidità e il freddo
non più sullo scalino dopo ogni sgambetto
ma per essere stato lanciato dall’alto per aria
violentemente
e cadono
verticalmente, cadono graffiando l’aria
disperatamente, vanno cadendo
cercando di vincere la gravità, inutilmente
afferrandosi all’aria che trapassano con le braccia
fino a sfiorare qualche spunzone delle rocce
e aperte ormai in canale le loro carni
cadendo, irremissibilmente
scendendo veloci
fino a frenare con un colpo
terribilmente
secco, come un sacco di ossa rotte che sbattendo
si spargono nel fango in cui il vuoto finisce
e dove lì affogano
se sono ancora vivi.
Là ci furono uomini e donne
perfino bambini di tutte le nazioni
e di nessuna, gli apolidi di Franco:
«Tenete la testa ben alta,
oggi a Mauthausen
il primo spagnolo è morto»,
José Marfil di Fuengirola, Málaga,
morto dopo essere sopravvissuto
al fratricidio, al parricidio,
al tirannicidio, in memoria di lui
primo minuto di silenzio,
qui a Mauthausen, tutti sull’attenti,
anche Antonio Benedicto
di Zaragoza, morto
a dieci giorni dalla liberazione,
fra altri, fra molti altri, fra tutti loro;
tutti nati in Spagna, «sempre alerta
fratelli di sventura e sofferenza
se vogliamo che quegli anni
non tornino!», ci scrive Antonio Hernández,
liberato il 5 maggio del ’45,
in memoria di Antonio Cebrián e di José Fontanet,
amici suoi, con meno di un mese di differenza
entrambi morti a Gusen nel ’41,
fra altri, fra molti aliri, fra tutti loro.
Settemila spagnoli repubblicani morti
a Gusen e a Mauthausen.
E anche lì rimasi muto
e sordo ai turisti chiassosi
e io sentivo ancora dietro di me
i latrati, le risate, gli insulti,
le grida, gli spari,
anche il silenzio.
Qui giacciono gli uomini senza sapere delle loro donne,
qui giacciono le madri senza i loro figli,
qui giacciono i bambini separati dai loro genitori;
qui giace ognuno solo
in mezzo alla solitudine di tutti.
Perfino il desiderio nella disperazione
fu una lenta e crudele agonia;
perché il terrore superò la malvagità.
Inginocchiati,
accoccolati,
seduti o perfino sdraiati
disperatamente alcuni
scelsero di vivere la morte
senza quasi la forza ormai per impiccarsi;
perché l’abbattimento volle fuggire dalla mostruosità,
inginocchiati,
accoccolati,
seduti o perfino sdraiati
alcuni abbandonarono il supplizio di dovere respirare,
morti in piedi
con una corda al collo
per lasciare attaccata al corpo
la morte, come un cane a un palo;
di inedia morirono senza autopsia, senza sepoltura,
senza riuscire a impiccarsi.
Temporaneamente
la nebbia copre gli orrori,
temporaneamente
il fumo copre le ceneri,
temporaneamente
l’acqua della pioggia copre
anche il sangue,
temporaneamente il tempo
copre tutto,
solo temporaneamente.
Adesso nella nebbia
si sentono ormai i motori,
ormai si scorge la Croce Rossa sui camion
che trasportano gli ospedali da campo,
ormai sta arrivando il fronte di guerra fino a Mauthausen;
per questa volta il fumo del camino
non puzza di pelle o di carne umana,
solo per questa volta il forno crematorio
incenerisce precipitosamente
documenti dell’orrore, film della barbarie,
fotografie dello spavento.
Vittime del franchismo,
vittime del fascismo,
vittime del nazismo,
adesso ormai
con bandiere repubblicane,
ma certo,
ormai senza svastica, senza aquila,
senza sentinelle,
gli spagnoli antifascisti salutano
le forze liberatrici.
E allora
tutti quelli liberati furono ricevuti nelle loro patrie
come martiri dell’orrore,
come vittime dello spavento,
come eroi della barbarie,
mentre gli spagnoli, ormai
senza il triangolo azzurro di apolidi di Franco,
non ebbero mai un paese nel quale tornare.
Furono questi coloro che rimasero solamente
senza vita ma vivi per rivivere la morte
perché senza patria, senza parenti, quasi senza amici, soli,
la morte fu sempre di tutti loro,
perché di tutti loro è la moria
ciò che perdura,
ciò che persiste ancora,
l’unica cosa che è sopravvissuta
restando sempre fra questi muri.
La sua opera, La constancia del tiempo (Lima, Viva Voz, 1990), raggruppa le poesie scritte tra il 1965 e il 1986 e comprende le raccolte Verso volgare, Dopo aver camminato certo tempo verso l Est, Fardello funebre, Una notte nel cavallo di Troia, La condanna dei fiori, Non troveranno mai le mie labbra. II volume si presenta come un corpus pervaso da una scansione strutturale, opera di un paziente e rigoroso lavoro, di una precisa valutazione dello spazio poetico nella distribuzione e ubicazione delle poesie. Il libro offre – quasi a contrapporsi alía spontaneitá lírica e a demistificare il mestiere di poeta – un itinerario obbligato per il lettore che, paradossalmente, si rivela sconosciuto a ogni poesía, a ogni lettura, come se il bisogno della forma celasse 1’eversione dei contenuti.
La semplicitá del titolo, La constancia del tiempo, nasconde una chiave di lettura dell’intera opera. Constancia prende da consto i significati di costanza, fermezza, permanenza, e di constatazione, conferma, e anche testimonianza. La parola, distolta dalla sua carica segnica, si mueve all’interno di una pluralitá di significati, nello spazio della différence, per dirla derri-dianamente, e fa di sé uno specchio che riflette altro e richiama il senso nei continui rimandi di significati. Gli assi semantici che attraversano la poesia di Cillóniz, racchiusi nella costanza e nella testimonianza del tempo, sono fondamentalmente il rapporto tra il lavoro poetico e la storia.
Da una parte, La constancia del tiempo é il testimone di un lavoro di elaborazione, ricerca e consolidazione. Lo osserviamo, ad esempio, nel confronto con l’edizione del 1975 delle tre prime raccolte apparse sotto il titolo di Los dominios. In essa el par di vedere non una poesia definitiva, ma il materiale – la «materia prima», se si vuole – che, nel 1990, dará vita a La constancia, con una parola saggia, scavata dalla riflessione poetica, uno stil-e sicuro, sereno anche se sempre sconcertante. L’epigrafe di Los dominios, tratta da José Carlos Mariátegui: «Nessuno di questi saggi é concluso: e non lo sará mentre io vivró, penseró e avró qualcosa da aggiungere a ció che da me é stato scritto, vissuto e pensato», puó esaurire il suo atteggiamento nei confronti della poesia e della realtá, che lo separa forse dai suoi coetanei, quello di una costante discussione che spezza ogni possibile ortodossia. II percorso seguito da Cillóniz lo allontana da un radicalismo del linguaggio degli «ismi», ma lo conduce a un altro radicalismo, piú profondo sul piano esistenziale.
La riflessione sul lavoro poetico si manifesta come una dichiarazione, una poetica esplicita, che spiega e si spiega – quasi a frustrare il lavoro del critico -, ma dietro questa cornice di pubblica trasparenza, la poesia permane segreta, da scoprire. Il mestiere del poeta é un lavoro che, a differenza di altri, é fondamentalmente solitario. Lavoro notturno, inquietante e marginale, che implica 1’assunzione della responsabilitá di comunicare, di agire sulla realtá: «Non cercate nel mio canto/ lo splendore dorato/ del sole,/ né il fulgore/ dell’oro in ogni verso./ Troverete soltanto/ acciaio/ che al rosso vivo dura/ quel che la luce di un giorno». L’opera, quindi, é anch’essa testimone dell’impegno con il suo tempo.
L’altra direzione del rapporto tra lavoro e storia si cala nell’idea di costanza, di permanenza. Uno dei temi cari a Cillóniz é la costruzione di analogie all’interno della storia dell’umanitá, intesa, non come concretezza fattuale, ma come comportamento, come luogo dell’etica. La visione che ne consegue é priva d’innocenza. In Una notte nel cavallo di Troia, alcuni grandi fatti della storia universale e della storia della cultura s’intrecciano con l’aneddoto, coi piccoli eventi del vivere, facendo si che le frontiere epocali si sfumino fino a dissolversi. 11 poeta rivisita alcuni temi, come nella poesia Parca: «Se la fame o la peste assediano/ tra i solchi della nostra terra ondulata/ scamperá il piú felice e fortunato di noi./ Ma se la guerra viene in nostro aiuto/ tra i solchi della nostra terra ondulata/ saremmo tutti portati/ alla terra ondulata di altri come no¡/ dove al piú debole terrá sempre compagnia la morte». Probabilmente il poeta darebbe ragione a Borges quando dice che «forse la storia universale é la storia della diversa intonazione di alcune metafore».
In Dopo aver camminato certo tempo verso V Est, il poeta percorre lo spazio americano attraverso la sua storia in permanente confronto tra un passato libero e un presente devastato. Si tratta di un viaggio, in cui non esiste scissione tra realtá e irrealtá, che inizia Al Sud del mondo, includendo il dato autobiografico Fra la casa e il mondo, per concludersi nei Tempi difficili.
La poesia recupera 1’idea della storicitá come sostanza dell’accadere umano, che le permette, non di fare appello alle significazioni implicite nel dato storico, ma di suscitarle, di provocarle. Questa storicitá senza confini richiama 1’idea di mito: «Urep» – anagramma di Perú? -, personaggio di Fardello funebre, alter ego del poeta, che si confonde e si scambia come un sosia, é un viaggiatore che visse e vive il tempo in uno spazio terreno dove genera, emigra, si esilia.
L’uomo concreto, la vittima e il carnefice, il poeta stesso sono segnati da questa storicitá in quanto accerchiati dal limite inesorabile della morte, tragica ma naturale distruzione. Ecco un altro tema che feconda la poesia di Cillóniz: il permanente ricordo della morte, quasi come un memento mor¡, ma di inconfondibile radice profana. L’idea della consumazione (corruzione) della carne, senza speranza e senza possibilitá di una escatologia, nasconde, forse, la disperazione e 1’orrore nella spietatezza naturalistica e nel sarcasmo: «Almeno non potró rubare il cibo/ ai miel vermi».
L’accusa della bruttezza del mondo, la cattiva coscienza della storia é sentita come apocalittica, facendo prevalere I’idea dell’agonia del mondo naturale, la «natura morta» come la chiama il poeta: «II grano/ splendente/ non brilla piú/ ai lati della strada. Tutto/ quanto qui vedete é necropoli/ e non riesco a leggere nascosto/ tra gli sterpi/ nessun epitaffio. 1 bulldozers/ distruggono le cittá/ come quando la rottura della diga/ mise fine allo splendore di Saba».
La politicizzazione non travalica il limite del privato, ma lo invade, la solitudine é 1’angoscia di vivere. L’intimitá – quasi assente, talvolta insi¬nuata – si ripiega in un’interioritá cifrata, in un esilio interiore. L’io del poeta non si spoglia, non si mostra nudo agli occhi del lettore; prende distanza e, come l’obbiettivo di una macchina fotografica, si pone davanti alle cose o le guarda con distacco, con ironia, scongiurando la sua esperienza del dolore in una realtá che ha perso, forse da sempre, la sua sacralitá. 11 linguaggio diventa piú unilaterale, piú asciutto, consapevole del suo sentimento contenuto. Ma non avverte il bisogno di distruggerlo perché puó ancora trovare la bellezza nella congiunzione tra la parola colloquiale, quotidiana, che ha potuto scorgere e apprendere da¡ suoi poeti piú amati, tra cui César Vallejo, Ezra Pound, e soprattutto Bertolt Brecht, e la parola colta, il dato letterario, la tradizione dei classici spagnoli. Forse é questa l’unica sfera possibile di conciliazione spirituale nei confronti di un mondo non piu praticabile.
POESIE DI ANTONIO CILLÓNIZ
(Versione italiana di María Beatriz LENZI)
PER IL NUOVO MONDO
Date al fisico un punto di appoggio e solleverá il mondo. Ma lo spazio che circonda la materia gli dá forma, in modo che possiamo affermare che diventa parte della sua stessa essenza; per cui, in sostanza, avrá scoperto un nuovo mondo.
Date un’áncora di salvezza al naufrago e, aggrappato ad essa, nella direzione che indicheranno i venti o il senso delle onde e la corrente, giungerá a nuove terre. Ma non avrá scoperto soltanto la parte di un tutto, che era ritenuto nulla, ma del tutto stesso e della parte giá conosciuta, perché senza di essa il tutto é una parte e con essa non é piú il tutto.
Date al pensatore o all’artista la possibilitá di disporre liberamente del tempo e avrá spazi per tanti mondi quante spiegazioni di esso voglia dare. Ma come a ogni essere corrisponde un concetto e viceversa, rimarrá loro il dubbio se a quell’essenza corrisponde un’esistenza o, ció che é lo stesso, se é materia o pensiero puro.
Date al contadino la terra dei nuovi mondi che 1’intelletto avrá conquistato affinché possa coltivarla e ci dirá se esistono. Anche se lui ci chiederá quella che giá lavora.
SULLA MATERIA
Se avesse ancora un altro senso crescerebbe il mondo? Anche se non posso indicarle, non esistono forse le stelle che io non vedo? E potrei perfino immaginarle. Eppure preferisco descrivere le uve del grappolo che tu mi offri, dopo averle assaggiate.
–Ma la vigna che tu mostreresti non servirebbe come alimento.
–No. Ma la vigna esiste. E quel che tu temi é che si diffonda.
CANZONE FUNEBRE NELLA VALLE DEL RÍMAC
Ecco La Terra
che gira nuda
su un naso di foca in un circo vuoto
con gli oceani immensi una grande macchia azzurra pallida molto bella
e le linee celesti dei fiumi
o i punti scuri
della sua pelle rugosa,
marrone e sporca. Ecco
che puó essere ormai contemplata dalla Luna o si puó continuare a vederla quaggiú
sdegnosa come una pelle tirata di scimmia che balla sul suo tamburo.
E gli spiriti della montagna
ieri benevoli nella coltura dei cereali fumano sotto le loro ceneri. Il vento soffia dall’Ovest travolgendo il mare
dal cielo che ci cade addosso con uccelli
di pioggia e di piume rosse
contro di no¡: anelli di ossidiana,
collane di denti e argilla sotto le maschere, con specchi di latta, speroni d’argento e neri pennacchi su¡ loro elmi.
Ecco che si calma ora la terra davanti al mare: pozze,
pozzi di petrolio e pescherecci, pellicani morti… e dal mare nemmeno un soffio di vento e brucia
la pelle al sole
come scorpioni cosparsi di kerosene. Disteso accanto alle formiche
e ai piedi della corrente di Humboldt, sto cantando.
PROCLAMAZIONE DELL’INVERNO FRA LE NUBIDEL CIELO PLUMBEO E LE ONDE DELL’OCEANO GRIGIO *
Mare del Sud,
oceano di alghe
e garriti di uccelli.
Neanche piú un indizio
che da queste parti c’é
un paese desolato.
Nemmeno una zolla della terra Mochica dura e secca;
nessun vaso Nazca
o Paracas,
a pezzi rossiccio e giallastro; né un solo huaco Chavín;
neppure Chimú con pesci-serpenti e scolopendre uscendo dal mare a Huanchaco. E arrivano i venti gelidi del Sud con odore di mais bruciato per 1’offerta e colore oro vecchio dei braccialetti e maschere mortuarie per le mummie e sapore di grano funebre.
* In questa poesia Cillóniz fa riferimento alle antiche culture andine dell’epoca pre-incaica. La cultura Chavín (Ancash) si svolse nel periodo, detto di formazione, tra il 1250 a.C. e il primo secolo d.C. All’interno del suo vastissimo spettro di influenza conosciuto come «orizzonte Chavín» si sono sviluppati altri centri, come quello di Paracas nella costa sud. Dal primo.
LONTANANZA
Il sole si addormenta sulle pietre
e sulle piante degli occhi
si posa la rugiada. Ah,
beato te
che ti prepari ad attraversare l’Atlantico per raggiungere l’altra sponda dell’America.
Tutte le sere mi affaccio a salutarti al balcone Ovest della casa
e di buon’ora ti aspetto sulla soglia dell’Est
nel caso ci fossero notizie.
TEMPI DIFFICILI
Non troveranno nessuno
a custodire
1’entrata accanto alla.porta.
Il sentiero sará quasi cancellato
dalle foglie che ormai nessuno calpesta piú. Davanti alle finestre
cespugli
o ragnatele.
E anche se a momenti crederanno di vedere che torna a muoversi la fronda aspetteranno inutilmente
che qualcuno esca dagli sterpi.
secolo fino all’800, chiamato periodo fiorente, sorgono le culture Mochica e Nazca. 11 predominio culturale di quest’epoca appartiene a Tiahuanaco (Bolivia). A partire dall’800 fino circa il 1300 avviene una fase di grande fusione, dove, ad esempio, la cultura Chimú si fonde con quella Mochica fino alla sua incorporazione nell’impero inca del Tahuantinsuyu.
Queste antiche civiltá sono conosciute come le «alte culture» per il grande livello di evoluzione nell’agricoltura, 1’elaborazione dell’oro (anelli, braccialetti) e soprattutto della ceramica. Di esse ci sono pervenuti i vas¡, che ricevono il nome di huacos. Gli huacos Mochica, ad esempio, di colore giallastro e rossiccio presentano raffigurazioni antropomorfiche, quelli Chimú sono dipinti con immagini di serpenti, pese¡ e altri animal¡ sacri, motivi che, piú stilizzati, si ritrovano anche nella cultura Nazca. 11 culto funebre ha nella cultura di Paracas un posto di rilievo caratterizzato da grandi teli lavorati con i quali venivano avvolte le mummie a modo di fardelli (n.d.t.).
IN DIFESA PER L’EUROPA
Beato me
che lascio l’Europa
dove cadono perpetue le nevi
sulle tempie dell’immigrato, ai margini dei diritti perduti
per via della cittadinanza,
sollecitando permessi
di soggiorno
chi fosse grande vassallo
senza avere buon signore
nella Grande Babilonia, Grande Sidone, Grande Tiro, Grande Gadex estesa per tutto 1’orbe.
CARBONIO 14
Gli atomi del mio corpo che provengono da muschio millenario
e da antiche alghe
hanno preso la configurazione che ho adesso
–e finché durerá questo ordine mi diranno che esisto–, sebbene dopo prenderó 1’aspetto di una felce –e allora mi daranno per morto –, quando forse saró riuscito a spuntare tra 1’erba che calpesti
anche se nessuno mi riconoscerá.
DI NUOVO TRA SCILLA E CARIDDI
Non so che cosa cl guadagno con le mie conquiste a costo del mio lavoro. Galeone oscuro navigando verso 1’Oriente
giunse alle stesse isole estranee che Glauco troncó quale vescica galleggiando verso Occidente.
Perché remare
in questo immenso mare
di tempestivi?
COME CONGEDO
Lo spirito, voglio dire il movimento della materia é sfuggito loro dalle dita, dagli occhi dal cervello e le loro membra
rattrappite, paralitiche
come chi implora 1’elemosina degli eroi, il favore degli déi con la mano tesa e alzata contro il cielo.
Le loro bocche sembrano pronunciare una preghiera aperte come una o proprio come un culo, immobili come statue davanti a un cavallo
di Troia omaggio degli déi: mais asciutto, sale bagnato, stoffe nuove che si frantumano al minimo tocco, berretti verdi. Ma lo spirito é loro sfuggito come un fiume da un cielo aperto in tempesta di pioggia e di fuoco tra nuvole che si aprono come fardelli funebri dall’apparenza splendida: mascherine d’oro, braccialetti d’argento,
tuniche di bronzo. Ma sotto puzzano i loro denti marci, magro lo scheletro, giallastro il teschio.
E quale migliore occasione questa per dire addio
alla sua famiglia, ai suoi amici, ma sono giá tutti morti.
NELLA CASA DI PILATO (UN’ALTRA VOLTA)
Ahi dell’arrivo nella partenza
e della sosta nel transito.
Di colui che avanza perché chi é dietro incalza e di colui che incalza per restare indietro. Di colui che scompare senza lasciare tracce e di colui che va lasciando tracce false. Ma ancor di piú di colui che si trascina e c’é sempre
e resta, resta
senza che nessuno se ne accorga.
PROMETEO
Se odii gli déi
perché un giorno ti toglieranno la vita tutta la vita vivrai tormentato. Ma se li ami
perché ti dettero la vita una mattina tutta la tua vita allora vivrai temendo di morire fra i tormenti.
CANTI DI VITA E DI SPERANZA
Ma piú di una rosa
ora
mi evocherá una musa? Quante prose che
non profanarono mai nulla! Preferisco versi oscuri
a una canzone che stupisce perché accompagna il cigno tra singhiozzi e sospiri.
Come un canto errante di finti pavoni.
MI HANNO FERMATO LA VITA
Appendo 1’eternitá a un lato
e alle mie spalle vi lascio 1’infinito. Dio é stato dappertutto
dove io
non sono mai passato.
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